La mia vocazione?
Come parlarne? Come dirne l’essenziale bellezza senza banalizzarla o profanarla?
Può una realtà così grande con poche parole essere definita e spiegata? Esistono poi espressioni adatte a tal fine, concetti degni e adeguati a tale “impresa”?
Ne provo timore a parlarne; paura a tacere!
Immagini allora si svegliano in me. Può un pesce spiegare il suo liquido vivere quando l’acqua è composto il suo mondo, il suo cibo, il suo respiro, i suoi occhi i suoi nervi, il suo guizzo istintivo?
Può il passero arrestare i suoi giochi nel cielo per carpire all’aria il segreto del suo libero volo, delle sue piume calde, delle sue ossa vuote e leggere?
Può il fiore interrogarsi sul suo affascinante colore, respingere l’ape operosa, chiedere al vento dov’è che porta il suo dolce profumo?
Può il sole esprimersi nel freddo ragionamento di cosa lo brucia e nel suo cuore infuocato trovare risposta ad ogni sete di tepore che l’universo reclama?
Posso io dare un vestito di parole a ciò che è molto più grande di me e dar apparenza di carne a qull’intimo che ci è dato di vivere e mai di possedere?
La vocazione: un mistero!
Non si può spiegare senza l’umile pretesa del bambino.
Non si può descrivere senza i puri slanci dell’innamorato.
Non si può comunicare senza i mistici segni delle Nozze.
La vocazione è un mistero donato!
Per essa la ricchezza è uno spreco, la fama una maschera, l’intelligenza un gioco ridicolo, l’ambizione un capestro. Ai suoi occhi casti la povertà è un gioiello, il silenzio una cosa dolcissima, la purezza una veste festosa, l’umiltà una mensa imbandita, l’amicizia una rete miracolosa. E non esiste disincarnata: è personale, è vivente, è gloria di Dio.
La mia vocazione:il mio mistero!
Sono io che la porto, certo, ma è lei che vive in me. Io la attuo, ma ogni mio gesto rivela la sua natura. Tutto di me e della mia storia ha senso solo nel suo ritmo di luce. Non ero ancora nato e già mi aveva disegnato la vita. Non vedevo ancora la luce e già il suo chiarore mi avvolgeva. Non potevo sentire e già la sua voce chiamava. Non aveva ancora plasmato il mio cuore e già il suo pulsava. Lo stile di Dio: una scelta gratuita e preveniente, frutto di una volontà imprevedibile. Già, perché – pennellata curiosa del mistero insondabile – non ero solo nel grembo materno. La vita chiamava due uomini: la vocazione reclamava un eletto. La madre gestiva i gemelli: la vocazione plasmava amorosa il prescelto. L’esistenza, poi, fiorendo pian piano, si veste di segni: fin dall’infanzia si fanno chiari i gelosi richiami dall’alto. Suoni e parole quelle che odi , ma precisi inviti quelli che intendi. Sono Luci, sono ombre quelle che scopri, ma tutto rivela il Volto che cerchi. Sono fatti staccati, vicende isolate quelle che vivi, ma scopri che tutte sono scene del Romanzo d’Amore che sogni.
Nulla è per caso, nulla scontato; ogni incontro e ogni stretta di mano, ogni lacrima e ogni sorriso, ogni calcio al pallone e ogni silenzio sono tutti disposti a tracciare una strada precisa. Anche la nube più cupa - la morte immatura dell’amato papà – non copre il chiaro orizzonte che rivela, pasquale, la mano ferma e amorosa del Padre e Signore. Viene il tempo, poi, in cui sboccia l’amore e si aprono gli occhi ai doni più belli: il Pane eucaristico e il fratello; l’offerta totale del cuore e le tante amicizie, la chiamata al servizio e il fascino del silenzio.
L’Amore invade, dilaga: i piccoli segni sono proprio i più intensi, di essi si serve l’innamorato impagabile. E quando ti provi a fare della tua vocazione un possesso sicuro, ecco che incontri, per dono, i poveri che te l’hanno pagata: tua madre che sgrana il Rosario con fede, i piccoli che invadono i tuoi pomeriggi sfibranti, i malati del Cottolengo, quella donna che prega solo in ginocchio e chiede perdono perché non sa altro che il Pater non avendo imparato a leggere, quel tuo prete che muore di cancro a due anni di messa e nel giorno del tuo compleanno, quella suora che si sprofonda in clausura immolando se stessa per il tuo sacerdozio futuro. La mia vocazione, dunque? Non è mia! Non l’ho mai meritata, e non mi appartiene! L’ho amata, curata, nutrita, custodita gelosamente come un tesoro affidatomi e ora, da prete, so bene a chi appartiene. E’ del bimbo che spalanca gli occhini all’ascolto del grande miracolo, è del vecchio che depone la vita ai tuoi piedi chiedendo un giudizio di amore e saggezza, è del giovane che ricomincia a camminare verso Dio stupito dell’amico mai stanco di ascolto e pazienza; è della ragazza che rinnova la vita per l’annuncio stupendo che la Parola si fa carne anche nella sua vita sbagliata e infelice; è dell’orfano che chiede ora la paternità di un cuore indiviso; è del malato incurabile che, spossato dal dolore, chiede a te se la croce è davvero il letto nuziale del Cristo Risorto; è della madre del tuo amico prete che stanco e consumato dalla solitudine ha lasciato il ministero per una ragazza che cercherà invano di riempire un cuore per natura fatto per tutti. Sì, la mia vocazione è della mia gente. Lo sa che è sua e che è affidata a un fragile essere umano per far risaltare la potenza di Dio e la sua sapienza. Ed è proprio la mia gente che salva la mia vocazione: non permette che la “routine” stanchi la mia preghiera: “Padre mi insegni a pregare” e ricomincio con gioia; “Padre mi perdoni” e dono il Sangue Prezioso; “Padre mi aiuti a ringraziare” e la lode si ravviva nel mio cuore e nel suo; “Padre il Signore è buono: lei me lo insegna” e imparo di nuovo a capire. La mia vocazione è stupenda, non perché è “mia”, ma perché è la nitida voce del Padre. E’ anche vera, perché non esiste una testimonianza più grande che Dio scrive dritto sulle nostre storte righe umane. La mia vocazione non schiaccia nessuno, non è dotta e potente, né ineccepibile. Non si fa corrompere dal bene che faccio né dal male che commetto, anzi la gioia del perdono è una festa che trasfigura la mia miseria e i miei difetti, i quali non servono ad altro che a dare più gloria a Dio, misericordia infinita. E cosa c’è di più bello di una vocazione sacerdotale offerta immolata per i sacerdoti? E’ per questa che davanti ad essa sto ancora in attesa e in ricerca, pronto a cogliere quella novità che essa contiene e che ancora non ho compreso in pienezza. La mia vocazione vuol essere a “tempo pieno” a servizio dell’amore, di quell’amore che mi pone come il pane sulla mansa di Dio e degli uomini per essere consumato; è una vocazione dal cuore aperto e dalle mani forate, impregnata di preghiera e di adorazione, il cui unico recapito è il tabernacolo. La mia vocazione non si ferma ai doni stupendi che le vengono dati, ma si incarna per la nostalgia di Colui che dona, Colui che continua a renderla possibile e vera. So, infine che la mia vocazione è eterna, la morte nulla potrà contro di essa. Il mio Paradiso sarà un immergermi eternamente nel cuore della mia vocazione ormai pienamente attuata. La mia vocazione! Signore ti prego per essa. Non ti chiedo perché me l’hai data, ti ringrazio infinitamente di avermela donata.
Don Tonino Panfili