Prima di tutto: cosa si intende per coppie di fatto? Due persone che vivono insieme come se fossero sposati. Sono un fenomeno dei nostri tempi. Nel Nord Italia le coppie di fatto sono la maggioranza, ed è difficile anche far accettare che non è l’ideale per prepararsi al Matrimonio. Dalla mia esperienza pastorale devo dedurre che di questa situazione son più preoccupati i genitori che gli stessi interessati.
“Perché non vi sposate?”
“Mamma non rompere, quando decidiamo di sposarci te lo dico, lasciami in pace”. E’ il dialogo, fatto di monosillabi tra genitori e figli.
Perché convivono e non si sposano? Le ragioni sono diverse. Ho cercato di elaborarle così. Il matrimonio richiede troppe cose: una stabilità lavorativa, una preparazione sociale e delle spese. Il pensiero di prendere un impegno così grave esige una preparazione e allora: “perché non fare la prova prima di sposarci? Perché non provare a vivere insieme?”. Il contesto in cui viviamo è tutt’altro che incoraggiante per assumere degli impegni definitivi come quello di costruire una famiglia, mettere al mondo dei figli. Le statistiche parlano chiaro: il sessanta per cento dei matrimoni non reggono alla prova del tempo. Ecco una delle ragioni determinanti per provarci. “Se poi regge ci sposiamo, che male c’è?”
La situazione è talmente dilagata che lo Stato ne ha preso coscienza ed ha dovuto regolamentarla con la legge n° 70 del 2016.
Il mio giudizio personale. Tutta la comprensione per la situazione di questi giovani che, in coscienza, pensano di fare questa scelta, ma non capisco come si possa considerare una prova se manca l’elemento più impegnativo dell’impegno da assumere: l’indissolubilità. Sarebbe come uno che si allenasse per il giro d’Italia correndo soltanto in pianura. Un prete che non trovava pace da nessuna parte mi chiese di far l’esperienza di vita monastica. Prontamente gli feci la presentazione per un Abate e il foglio di via, poi gli chiesi quando intendeva partire, così da quel momento lo avrei tolto dal sostentamento del clero. Lui si ribellò e mi restituì il foglio dicendomi che a quelle condizioni non andava. Gli precisai che fare l’esperienza di monaco prevedeva l’esercizio temporaneo dei voti tra cui c’era la povertà e se no lo avessi fatto sarebbe stato un monaco con lo stipendio, mancava cioè un elemento fondamentale per la prova. Così le convivenze: si vive come marito e moglie ma con la possibilità di chiudere. Questa è una esperienza di amicizia non di matrimonio. Tanto è vero che, purtroppo, ci sono divorzi anche tra coloro che hanno fatto questa esperienza, anzi alcuni si sono separati poco dopo la celebrazione del matrimonio stesso.
Allora che comportamento tenere con i figli che fanno questa scelta. La tentazione è quella di dir loro di sposarsi, ed è proprio ciò che non si deve fare perché il Matrimonio deve essere fatto nella massima libertà e serenità di spirito, senza essere spinti neppure moralmente da nessuno. I genitori devono “accettare” la situazione e non rompere i rapporti. Ovviamente accettare non vuol dire “approvare”. Soltanto quando si sentiranno accettati sarà possibile anche aprire il discorso sul matrimonio, sempre con la massima delicatezza.
La Chiesa che cosa pensa di queste situazioni? Papa Francesco parlando nell’omelia dell’incontro mondiale delle Famiglie a Filadelfia (27.09.2015) si è espresso così:
“Ogni persona che desideri formare una famiglia, che insegni ai figli a gioire per ogni azione che si proponga di vincere il male –una famiglia che mostri che lo Spirito è vivo ed operante- troverà la gratitudine e la stima, a qualunque popolo, religione o regione appartenga”.
E’ proprio il caso di ripetere quello che ho già scritto: “Dio ama tutte le famiglie”.
Ancora Papa Francesco nell’Esortazione apostolica “Amoris laetitia” scrive: “Lo sguardo di Cristo, la cui luce rischiara ogni uomo, ispira la cura pastorale della Chiesa verso i fedeli che semplicemente convivono, o che hanno contratto matrimonio soltanto civile o sono divorziati risposati. Nella prospettiva della pedagogia divina, la Chiesa si volge con amore a coloro che partecipano alla sua vita in modo imperfetto: invoca con essi la grazia della conversione, li incoraggia a compiere il bene, a prendersi cura con amore l’uno dell’altro e a mettersi a servizio della comunità nella quale vivono e lavorano. Quando l’unione raggiunge una notevole stabilità attraverso un vincolo pubblico –ed è connotata da affetto profondo, da responsabilità nei confronti della prole, da capacità di superare le prove– può essere vista come un’occasione da accompagnare verso il sacramento del matrimonio, laddove questo sia possibile” (n° 78). Ultimamente una famiglia di conviventi con tre figli, mi ha contattato perché la figlia maggiore in occasione della prossima Prima Comunione ha chiesto loro di sposarsi. Credo che avesse proprio l’autorevolezza di poterlo fare.