“Sperare in Colui che fa vivere i morti e chiama all’esistenza ciò che non esiste più” suppone che questa speranza sia effettivamente vissuta da qualcuno che in qualche maniera l’incarna suscitando intorno a sè la speranza in Dio che è l’unico garante. Abbiamo parlato di Abramo e il cap. 11 della lettera agli Ebrei ha evocato una gran nube di testimoni di cui Cristo “iniziatore della fede” che la conduce a compimento è sempre il primo.
Queste figure di speranza sono caratterizzate da due elementi: il loro modo di considerare la terra come eredità e di viverci come ospiti, la dimensione dell’ospitalità. A seguito di Gesù, Francesco di Assisi e altri tanti testimoni anonimi hanno incarnato la beatitudine dei “miti”, dei “non violenti” a cui è promessa la terra in eredità.
Questa speranza non è soltanto riservata ai cristiani. La figura di Paolo e di Abramo supera i confini della fede anche senza ridurre la speranza ad un istinto naturale di sopravvivere alla morte. Per la scienza e la filosofia la speranza è concepita come lo sforzo ultimo di una umanità che si vuole come “umana”. Ma cosa significa “volersi come umana”? Per rispondere basta pensare che l’umano non è costituito una volta per tutte ma si costruisce continuamente all’interno dello stesso atto di speranza. Una speranza semplice e complessa che ogni volta si manifesta unica al cambio di generazioni.
Questa speranza si diffonde per contagio o è preceduta dalla sorpresa che ciò che uno pensava di portare esiste già nella persona incontrata: una speranza che non arriva dall’esterno ma emergente dal cuore stesso di un corpo malato e bisognoso di aiuto.
Gesù si è interessato prima di tutto a queste persone chiamate “povere”. Gli evangelisti danno un rilievo a queste figure di una fede o di una speranza elementare e Gesù ha insistito col dire che queste ci precederanno nel Regno di Dio perché tutti sentano il loro grido e soprattutto la loro fede e la loro speranza.
Papa Francesco nella sua enciclica “Laudato sì” lega intimamente la disposizione di sentire il grido dei poveri e quello di ascoltare il clamore della terra. “
«Laudato si’, mi’ Signore», cantava san Francesco d’Assisi. In questo bel cantico ci ricordava che la nostra casa comune è anche come una sorella, con la quale condividiamo l’esistenza, e come una madre bella che ci accoglie tra le sue braccia: «Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba».[1]
Questa sorella protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla. La violenza che c’è nel cuore umano ferito dal peccato si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi. Per questo, fra i poveri più abbandonati e maltrattati, c’è la nostra oppressa e devastata terra, che «geme e soffre le doglie del parto» (Rm8,22). Dimentichiamo che noi stessi siamo terra (cfr Gen 2,7). Il nostro stesso corpo è costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora.” Continua il Papa: “Oggi non possiamo non riconoscere che il nostro approccio ecologico si trasforma sempre in un approccio sociale che deve integrare la giustizia nella discussione per ascoltare tanto il clamore della terra che il clamore dei poveri” ( 1,2,49)
Nella linea di questi gemiti di cui parla la lettera ai Romani non dobbiamo soltanto sentire il gemito dei poveri e della natura che aspettano la nostra conversione ecologica ma sentire in priorità il Vangelo dalla bocca di questi ultimi e …. Sentirlo risuonare nella creazione. Questi sono i veri portatori di speranza perché interamente sospesi ad essa, Senza far confusione possono evangelizzarci e far sorgere in noi una nuova speranza.
In questo modo il concetto escatoligico di “sperare contro ogni speranza” è perfettamente confacente alle minacce specifiche che pesano oggi sul nostro modo di immaginare un futuro. I poveri ci insegnano a sperare con la loro speranza.